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Tra fotografia e Far East, il congedo a Udine di Villi Hermann

data: 30.11.2015

categoria: notizie

“Non vi dirò perché ho deciso di realizzare questo documentario: la ragione la trovate negli ultimi cinque minuti del film...” è un Villi Hermann che si è divertito a giocare la carta della suspense, quello che si è rivolto al pubblico udinese nell'ultima serata del Premio Darko Bratina 2015. L'opera in cartellone al Visionario, già proiettata giovedì scorso a Gorizia in onore della masterclass tenuta dal premiato, era Gotthard Schuh. Una visione sensuale del mondo: dedicato alla figura di uno dei maggiori fotoreporter del '900, si tratta dell'ennesimo capitolo dell'amore del regista ticinese per la fotografia, da lui definita come “un ponte tra la memoria del passato e il presente”. E proprio su quel ponte va ricercata la ragione taciuta ad inizio serata: “In alcune case della mia zona anni fa mi capitò di vedere dei ritratti bellissimi. Informandomi, appresi che li aveva fatti Schuh: scoprii così che negli anni '50 era stato mio vicino di casa, e aveva regalato quelle stampe, come forma di ringraziamento, a quanti aveva usato come suoi modelli.”

 

Il documentario di Hermann si concentra comunque su un periodo precedente dell'attività del fotografo: quello in cui – sono i primi anni '40 – trascorre 11 mesi tra Singapore, Giava e Bali, cercando una sorta di paradiso lontano dagli orrori che stavano segnando il vecchio continente. Un paradiso difficile da ritrovare oggi, come ha affermato sconsolato il regista, in una Bali in cui le donne impegnate in quelle che un tempo erano danze di carattere religioso diventano semplici performer ad uso e consumo dell'occhio del turista. Le differenze così si annacquano, le distanze diminuiscono, e Hermann può a ragion veduta permettersi, nel finale, una sequenza in cui il paesaggio indonesiano si confonde con quello del Malcantone: “C'erano gli alberi – anche da noi ci sono le palme – e notai come perfino le ringhiere fossero lo stesse che avevo visto laggiù.” Un senso di spaesamento che ricorre lungo tutto il film: “Ho inserito qua e là degli scatti di Schuh, non tutti realizzati in Indonesia e non seguendo un ordine cronologico: piuttosto mi sono fatto guidare dalle suggestioni delle immagini.”

 

Quanto al suo Malcantone, “è una terra di emigranti: negli anni '70 dell'800 venne costruita la galleria del San Gottardo, ma i contadini ticinesi piuttosto che riciclarsi come operai preferirono andare altrove. Ci fu chi cercò fortuna in California, chi – come il ramo materno della mia famiglia – in Francia... Poi loro ritornarono in Ticino e da lì si spostarono nella Svizzera tedesca, all'epoca del boom tessile nella zona di San Gallo: fu in quegli anni che lei conobbe mio padre”, racconta il regista, confermando una volta di più come il superamento dei confini sia nel suo dna.

 

La notazione famigliare è quella che conclude la serata. È tempo di saluti e Hermann si congeda con l'augurio e la promessa di un ritorno, magari in occasione della presentazione della sua prossima fatica, nelle nostre zone: zone che in una settimana ha scoperto vicine per molti aspetti al suo retroterra e alla sua sensibilità. Nulla di strano, allora, nel fatto che noi siamo in grado di dire lo stesso del suo cinema.